ROBINSON CRUSOE, di Daniel Defoe (Feltrinelli)
Anno 1719 Il romanzo di Defoe si incentra sul rapporto fra l’individuo, la società e la natura che è perseguitante o accogliente a seconda di come si presenta e di come con la ragione la si domina. Robinson Crusoe, il naufrago che sopravvive a se stesso, si può affermare sia che tenacemente sottomette la natura di un’isola selvaggia e incontaminata e sia che ne rispetta il ritmo naturale adattandosi e traendone i massimi benefici, a seconda di come si vuole interpretare la sua volontà di sopravvivere prima e di vivere dopo.
Certo Robinson non si lascia morire, come forse avrei fatto io di fronte a prove così difficili, e diventa imprenditore di se stesso riuscendo in un’impresa impossibile, facendo a meno della società di cui non sente affatto la mancanza e trovando appagamento nel costruire, coltivare, allevare e nutrire non solo il suo corpo ma soprattutto il suo spirito ringraziando di avere il necessario “aveva Valore ciò di cui potevo fare uso. Avevo da mangiare, il necessario per i miei bisogni: che mi importava del resto? Se avessi ucciso più selvaggina di quella da consumare avrei dovuto gettarla ai cani o ai vermi. Se avessi seminato più grano del mio fabbisogno si sarebbe sprecato”.
La vita è però fatta di equilibri precari che cambiano continuamente al punto che Robinson viene messo in crisi quando vede un’orma sulla “sua” spiaggia e si sente minacciato nella tranquillità raggiunta a fatica. Ma più di tutto Robinson è un vagabondo viaggiatore che ha sempre voglia di andarsene per il mondo; è questo forse l’aspetto del protagonista nel quale mi sono ritrovata di più.
Recensione di Barbara Gatti
ROBINSON CRUSOE Daniel Defoe
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