Scherzetto, di Domenico Starnone
«[…] l’irritazione iniziale si tramutò in rabbia. A scuola quella parola non piaceva, maestri e professori ci correggevano. No rabbia – ci rimproveravano –, si dice ira, la rabbia ce l’hanno i cani. Ma la lingua napoletana che si parlava nel Vasto, al Pendino, al Mercato – i quartieri in cui ero cresciuto io e prima erano cresciuti mio padre, i nonni, i bisnonni, forse tutti i miei antenati – non conoscevano la parola ira, l’ira di Achille e di altri attivi dentro ai libri, ma solo ’a raggia ». (p. 36).
Queste poche righe facevano parte del brano scelto dalla traduttrice francese Dominique Vittoz a un laboratorio a cui presi parte l’anno scorso a maggio. E mi rimase impressa la parola ‘raggia’. Domenico Starnone ci sorprende di nuovo con un racconto dove questa ‘poco nobile’ emozione è il motore propulsore, la scintilla che dà origine al racconto.
Il dizionario Treccani ne dà questa definizione: “irritazione violenta prodotta dal senso della propria impotenza o da un’improvvisa delusione o contrarietà, e che esplode in azioni e in parole incontrollate e scomposte”. E ancora: “nell’uso popolare è spesso sinonimo di ira, in senso attenuato può significare impazienza stizzosa e seccata, disappunto vivo e dispettoso per essere costretto a fare ciò che non si vuole o per non aver ottenuto ciò che si voleva.”
Ecco proprio queste ultime parole descrivono lo stato in cui si trova il protagonista, il nonno di Mario ma anche l’artista famoso, Daniele Mallarico (1940 -2016) incaricato da un giovane presuntuoso editore di illustrare il racconto di Henry James, “The Jolly Corner”. Daniele Mallarico è arrabbiato perché il suo committente non è soddisfatto delle sue tavole e perché sua figlia lo costringe a tornare a Napoli per badare al figlio mentre lei e il marito si assentano per un convegno.
Questa convivenza forzata con un bambino pestifero di quattro anni è il pretesto narrativo per affrontare tematiche molto complesse e care a Domenico Starnone. Al centro del libro c’è la distrazione del protagonista che si manifesta nei confronti dei propri familiari. Domenico è un padre distratto, un suocero più che distratto, un nonno superlativamente distratto. Tutta la sua attenzione si concentra sulla ricreazione. E così distratto nei vari ruoli familiari, il protagonista naviga a vista nelle incapacità insite nei nodi intimi dentro i rapporti casalinghi, soprattutto fra marito e moglie.
Ancora una volta Domenico Starnone coglie le fragilità umane intrappolate nell’assoluta indecifrabilità dei rapporti di coppia, di cui racconta magistralmente tutto il bello e tutto il brutto che poi sono archetipi atavici che si ripropongono nel racconto della condizione umana nei secoli. La struttura è quella della tragedia greca. La drammatizzazione di un conflitto. Di un conflitto fra due uomini, lo scontro fra due maschi, la competizione fra due esseri umani.
L’incomunicabilità di due mondi diversi: uno che sta per finire, uno che sta per iniziare. Il luogo dove avviene la tragedia è la casa: le mura domestiche nascondono le insidie peggiori, e per il protagonista quest’ultime si annidano tutte sul balcone. Quel minuscolo balcone che sua mamma temeva quando lui era piccolo, mentre a lui piaceva andarci, che come tutti i bambini piccoli, ancora non sapeva discernere i pericoli. Ora, ritornato nella casa di famiglia, perché lì abita la figlia, rivedendo il balcone si appropria delle paure materne, mentre il piccolo demonio Mario, suo nipote, ci gioca con la leggerezza e l’ignara inconsapevolezza del rischio tipici dell’infanzia. “Il balcone, in sintesi, è affacciarsi sul vuoto.”
“Scherzetto” oltre ad essere un duello fra un vecchio e un bambino è anche una riflessione sul talento.
Bellissimo il seguente passaggio, dove il nonno osserva il disegno del nipote: «Sul foglio del bambino c’era la dimostrazione di una straordinaria capacità mimetica, di una naturale armonia compositiva, di un fantasioso senso del colore. […] Gli presi il foglio, lo esaminai. Mi sentii come se avessi ricevuto uno spintone così violento da mandarmi dal centro ai bordi del mondo. E mi ricordai di un altro urto altrettanto forte, quello che avevo avvertito da ragazzino quando ancora non sapevo niente delle mie capacità e le avevo scoperte tra meraviglia e spavento.» (p.97).
In entrambi i casi lo spintone è la presa di coscienza di un qualcosa che sfugge a ogni definizione, perché è difficilissimo riconoscere il talento la prima volta che se ne vede una manifestazione. Così parla Starnone del suo ruolo di insegnante durante una presentazione di “Scherzetto”: «Una delle mie massime preoccupazioni è avere un Leonardo Da Vinci e non rendermene conto. Il talento è una cosa complicata. È difficile scorgerlo la prima volta ma è altrettanto difficile riconoscerlo quando è coronato, quando ormai l’artista è riconosciuto e affermato.» In realtà non sappiamo cos’è il talento. È il risultato dell’urto continuo fra due tesi opposte? È qualcosa che si acquisisce? O di talento si nasce? Tutti all’origine lo possediamo ma non tutti lo scegliamo o e lui che sceglie noi?
Con questi interrogativi, vi invito cari lettori a non farvi fuorviare dal lieto fine della storia il cui intreccio non vi svelo, ovviamente per non spoilerare. L’appendice, ossia gli appunti e gli schizzi dell’artista, svela il baratro che la realtà invece riserva agli umani. Il finale felice appartiene ai libri. La vita è un’altra cosa. Terribile l’ultima frase: «Non so, stamattina, se ho paura per il bambino o ho paura del bambino.»
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