SE QUESTO È UN UOMO e LA TREGUA, di Primo Levi
Avevo letto ” Se questo è un uomo” alle medie, quando in realtà poco o nulla conoscevo dei campi di concentramento e ancora meno riuscivo a comprendere. Averlo riletto oggi, dopo aver letto il libro della Segre La memoria rende liberi e una consapevolezza diversa degli eventi, ha fatto sì che puntassi l’attenzione su particolari che allora mi sfuggivano.
Intanto è uno dei primi libri scritti sull’orrore di ciò che è stato, nel 1947, quindi la vividezza dei ricordi, la sfumatura delle emozioni, l’arte della sopravvivenza e l’annientamento prima di tutto della volontà dell’uomo, arrivano come un pugno nello stomaco e uno schiaffo in pieno viso insieme.
L’essere sopravvissuto ad Auschwitz non lo ha reso un uomo più forte, come si può credere, ma lo ha lasciato malato dentro e fuori e paradossalmente è stata la sua salvezza perché non era idoneo per la marcia della morte e quindi era stato abbandonato a se stesso nel campo, dove era ancora febbricitante quando è stato liberato dai russi. Liberato! Come se essere trovati in agonia in un mondo che non riconosci e non accetti potesse essere considerata una liberazione!
Come se l’annientamento progressivo della volontà e dell’essere umano presupponesse che tutto sarebbe tornato come prima della guerra senza lasciare cicatrici, come riavvolgere un nastro e sedersi a guardare un finale diverso. Eppure era libero in un mondo ancora in guerra e molto malato.
Effettivamente, come diceva la Segre, mi ha colpito quante volte lui usa il termine ” stupore” e parole derivate, ed io che avevo dato sempre una connotazione positiva a questo termine, immaginando per esempio lo stupore di un bambino incredulo, mi sono dovuta ricredere e accettate anche il suo connotato negativo.
Lo stupore è ciò che non credevi possibile esistesse, che mai avresti immaginato di provare, di sentire, di vedere solo per il fatto che non esisteva. E l’orrore giornaliero, la guerra quotidiana degli omuncoli delle baracche ne rappresenta in pieno il significato.
Non si trattava di combattere solo coi tedeschi, si trattava di combattere per un paio di scarpe appaiate, per il posto in fila migliore per la zuppa, per difendere nelle poche ore di sonno la tua gemella e qualche bottone, per difendersi dai pidocchi, ecc.
Per non parlare della lotta di sopravvivere gli ultimi dieci giorni in cui il campo fu abbandonato dai tedeschi che obbligarono i prigionieri idonei a marciare per finirli di stenti. Il libro racconta dei suoi tredici mesi di prigionia: dicembre 1945-gennaio 1946. Ma anche se il filo spinato non era più elettrificato per mancanza di corrente, la guerra incombeva ancora in Europa.
Quindi inizia l’altro racconto, quello della Tregua, quello dell’interminabile viaggio da un campo di accoglienza all’altro prima di poter riprendere, solo nel settembre del 1946 il viaggio tortuoso del ritorno che lo riporterà a casa, in Italia, a Torino. Se Primo Levi non parla di Ritorno ma di Tregua è perché a mio avviso di quello si è trattato per lui: non un ritorno alla casa, che pure trova intatta, con la famiglia riunita e viva, ma una tregua di felicità; come dice lui stesso: “il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa”.
Diciamo che, posteriormente agli eventi che hanno determinato le scelte di vita di Levi, era forte in lui il desiderio di affidare a questi libri la testimonianza di quello che è stato, ma assolto a questo compito ha continuato a rivivere lo stupore di non riuscire a convivere con ciò che ha vissuto e visto.
La tregua della vita dopo i campi non era per lui libertà, non poteva parlare liberamente perché non si voleva ascoltare, non si poteva relegare ad un sogno perché quel sogno tornava vivido tutte le notti e lacerava l’anima dell’uomo che era stato prima della guerra. Alla fine chi può determinare se lui è stato un ” sommerso” o un ” vinto”?!
Recensione di Evelina Loffredi
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