SI CHIAMAVA ANNE FRANK, di Miep Gies Alison Leslie Gold
Il Diario di Anne Frank, testimonianza dolorosa dell’Olocausto e allo stesso tempo piccolo capolavoro di scrittura, mantiene intatta anno dopo anno la sua popolarità. Pochi sanno però che quel diario, rilegato a scacchi bianchi e rossi e riempito dalla grafia fitta e minuta di una quindicenne, non sarebbe mai arrivato fino a noi se una ragazza olandese di origine austriaca non l’avesse salvato e custodito, con la speranza – purtroppo illusoria – di restituirlo alla sua proprietaria.
Quella ragazza si chiamava Miep Gies, e questa è la sua storia: comincia un lunedì mattina del 1933, quando si presenta per un colloquio di lavoro alla ditta Travies & Co. A riceverla è Otto Frank, ebreo tedesco da poco emigrato ad Amsterdam con la moglie Edith e le figlie Margot e Anne per sfuggire alle persecuzioni naziste. Divenuta presto amica di famiglia dei Frank, Miep li aiuta nei loro giorni più difficili: quando nel 1942 i rastrellamenti delle SS rendono ormai impossibile la vita agli ebrei, insieme al marito decide di nascondere la famiglia Frank in un appartamento segreto sopra gli uffici dell’azienda. Per i due anni seguenti sono loro a occuparsi della famiglia di Anne, non solo proteggendoli e sfamandoli ma cercando di rendere la clandestinità un po’ più sopportabile. Testimone privilegiata – oltre che amica e aiutante -, Gies illumina gli eventi minimi ed essenziali della vita dentro il rifugio: come ha scritto Elie Wiesel, «vede tutto, immagina il resto, raccoglie gesti, parole, sguardi» fino al noto, terribile epilogo. Ma la morte di Anne, deportata a Bergen Belsen, non è la fine del racconto: Miep riesce a sottrarre il diario a un sicuro destino di oblio e lo riconsegna a Otto Frank, sopravvissuto al lager, che lo fa pubblicare.
In questo Natale così strano ed anomalo, pieno di regole e limitazioni, mi è capitato tra le mani un libro veramente toccante, seppur con alcune inevitabili pecche.
Credo che ognuno di noi nella propria vita abbia letto Il diario di Anne Frank, magari anche solo come compito assegnato a scuola: ogni libro tuttavia parla ad ognuno di noi in modo diverso a seconda della fase in cui lo stesso viene affrontato. L’ultima volta che è capitato a me di leggere Il Diario non ero ancora madre, la mia vita non aveva affrontato molti fondamentali passaggi che mi hanno cambiato e vi confesso che non ho più trovato il coraggio di affrontare letture sull’Olocausto. Tuttavia, quando ho letto il titolo del libro di Miep Gies mi sono sentita come chiamata e non ho saputo resistere.
La storia in sé è estremamente semplice: una famiglia di ebrei scappa dal nazismo in Olanda e si ricostruisce una vita ma Hitler invade anche i Paesi Bassi e l’unica possibilità di salvezza è nascondersi. Tuttavia la soluzione può funzionare solo se ad aiutare i rifugiati nell’appartamento c’è una rete esterna di sostegno e protezione, il cui perno è Miep, ariana e nata a Vienna, giovane donna la cui vita sembra scorrere su binari prestabiliti, che tuttavia vede la propria esistenza sconvolta dal nazismo e dalle sue leggi di morte come milioni di altre persone. Ma per la ragazza opporsi non è una scelta sofferta, bensì l’unica possibile di fronte al male che sta invadendo non solo le vite ma anche i cuori di numerosi popoli, nel cui seno troppi individui vedono nei totalitarismi il modo di ottenere potere e vantaggi a scapiti di chi li circonda.
Per Miep, affrontare la morte ed i pericoli di deportazione o fucilazione ogni giorno sembra normale, quando l’alternativa è vedere uccidere i propri amici, perché il male può essere sconfitto solo con il coraggio e le gesta – più o meno grandi – di ognuno di noi. Ed ecco il verduraio che senza parlare regala sacchi di patate, il macellaio che dona tutta la carne che può e tanti altri che in silenzio si oppongono al potere ed al razzismo.
Facile per noi – che leggiamo questo libro a distanza di così tanto tempo che c’è addirittura chi ha il coraggio di negare l’esistenza dell’Olocausto – credere che ognuno di noi avrebbe aiutato i Frank ed i Van Daan ma la realtà è molto diversa: la scelta di Miep e del marito Jan e di tutti coloro che nei territori occupati dalla Germania e nella stessa Germania hanno avuto il coraggio di opporsi al nazismo aiutando gli ebrei è la dimostrazione che il bene può vincere sul male, a costo spesso della propria vita.
Oggi, in quest’epoca funestata da una pandemia che ha riscritto le vite e le convinzioni di ognuno di noi, quando gli immigrati ed i diversi da noi sono oggetto di un odio profondo ed immotivato il nazismo di Hitler non sembra così lontano: ognuno di noi è chiamato a prendere posizione sulle proprie scelte morali, fortunatamente senza correre rischi per la propria vita, proprio grazie a chi ha avuto il coraggio di combattere i totalitarismi e ci ha dato la possibilità di testimoniare il nostro dissenso in ogni forma e modalità. In questo periodo dove la pandemia ha occupato tutti i nostri pensieri i diritti dell’uomo sono passati in secondo piano, rendendone così più facile la violazione.
Ma torniamo al libro: la storia è narrata con una tale semplicità che pare quasi noiosa, se sottostante in ogni pagina, frase, a volte parola, non ci fosse la consapevolezza della morte che sarà il destino di quasi tutti gli abitanti dell’Appartamento Annesso. Così, gli sforzi di Miep e dei suoi amici danno una sensazione di inutilità ineluttabile, che rende il lettore estremamente triste. Ma il ritorno di Otto Frank, la conservazione e successivamente la pubblicazione dei Diario di Anne, primo e precursore di una lunga serie che racconterà l’Olocausto con le parole dei sopravvissuti o dei morti, sono la prova che lottare contro il male è un dovere morale, anche a costo della propria vita e libertà.
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