SORELLA MIO UNICO AMORE, di Joyce Carol Oates
Con questo romanzo la Oates ci trascina abilmente e con passi solo apparentemente incerti in un dramma privato, nell’inferno più intimo: quello del bambino sognante che impara a dare significato al dolore inflitto da chi lo dovrebbe proteggere.
Nella sua modalità irriverente e adeguata ci racconta il delirio di una famiglia (ma con la coda dell’occhio di un microcosmo più esteso) che tra le pieghe della tollerabilità sociale nasconde una profonda decadenza. Come spesso accade, e l’autrice sa descrivere magistralmente, le vittime sacrificali sono bambini confusi e spaventati, traditi e bisognosi di un calore che non arriverà mai.
Una lacuna di empatia dove ristagnano gli echi di un passato (dell’adulto) che lungi dall’essere elaborato, si scaglia con violenza esponenziale sui figli che diventano mere parti di un sé maltrattato. Ancora una volta la Oates mi colpisce con la sua violenza e mi tramortisce con un dolore che è atavico e potente perché è diretto e parla alle corde recondite dell’umana compassione.
Nell’universo degli abusanti si da uno spazio a mio avviso rilevante alle figure “mediche” (in senso lato), professionisti mercenari dalla diagnosi facile e capaci di mettere distanza utilizzando sigle e farmaci di tutti i tipi senza remore, creando un corollario che non si basa sull’aiuto, ma sulla necessità di lucrare e di inserirsi in maniera pedissequa nella società delirante che esalta il carnefice e umilia l’abusato.
Non un libro di semplice lettura, decisamente toccante e a volte ferisce, ma lo straconsiglio!
Recensione di Daniela Candace Pedriale
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