STATO PASSIVO, di Sebastiano Martini (Edizioni Ensemble – settembre 2021)
Non è la pipa di Simenon, ma un sigaro di classe. Non è mattina, ma un’ora indefinita del giorno. Si chiama Sebastiano Martini e lo immagino fumando intento a scrivere il suo nuovo romanzo. A Parma, sua città natale dove esercita la professione di avvocato civilista. Dove si occupa di fallimenti. Un po’ come Paolo Conte, con il quale condivide molto di più di un mestiere. Al quale ruba una magia. La Saga del Mocambo. Un nostalgico ritmo jazz s’insinua fra le righe distillate del romanzo. Un sussulto di sapore americano ci ricorda la scrittura asciutta e densa di Hemingway come se si fosse rarefatta e materializzata in un quadro di Edward Hopper. “Stato passivo” è un racconto o romanzo breve che affianca due uomini, uno giovane e uno in età pensionabile. Entrambi si confrontano, chi per necessità, chi di riflesso, con un sogno infranto, come recita la frase in esergo di Romain Gary: «Siamo tutti dei falliti rispetto ai nostri sogni».
Lo stato passivo nell’ambito della procedura concorsuale di fallimento è l’atto risultante dalla fase di accertamento del passivo e ha la funzione di individuare e ordinare i creditori del fallito che sono titolari del diritto di partecipare alla ripartizione dell’attivo patrimoniale. Nella vita è un’attitudine umana volta ad accettare senza reagire quello che la vita ci offre, è la rinuncia al proprio protagonismo, l’accettazione del proprio essere passivo. Cosa significa? Significa adagiarsi nel nostro quotidiano, dimenticando i sogni e gli amori giovanili, lasciando che si spenga la passione che brucia dentro di noi e/o accettando che l’ingranaggio sociale ci trascini in iter sgradevoli e spersonalizzanti.
Senza entrare nel dettaglio dei nostri due personaggi, il giovane e il vecchio, il fallito e il curatore fallimentare, Jacopo Nuti e Folco Cerri, possiamo dire che il loro incontro diventa il riflesso luminoso, la controparte positiva, l’altro lato della medaglia, il famoso “cosa sarebbe successo se…”. Tutti noi, a conti fatti, ce lo chiediamo, dopo aver messo roba dietro al se. ‘Roba’ che invece ha ingrigito le nostre giornate, spento la nostra luce, tolto ogni stimolo, ucciso l’iniziativa. Uno stato di vita passivo insomma. Che è sinonimo di morte in vita o di suicidio. Il primo capitolo è una lezione universitaria, che non c’entra niente con i nostri due personaggi. «Si trattava di una lezione pratica su come condurre un esame autoptico» (p.13) Gli studenti del corso di Medicina Legale di Padova imparano come si fa un’autopsia: «il bisturi, governato dalla mano ferma del medico legale, percorse sul cadavere una perfetta ipsilon, dalle spalle verso il centro del torace, così giù fino all’osso pubico». (p.13) Non ci sono dati anagrafici, non si sa chi sia l’uomo.
Sappiamo che è morto e che «viveva per strada come un barbone». (p.14) Mi sono chiesta a lungo cosa c’entrasse questo incipit con il resto della storia, il fallimento del Phillies, un locale notturno fiorentino. E la risposta forse l’ho anche trovata. Dico, forse, perché è una mia illazione. Nel libro, l’autore non ce lo dice da nessuna parte. Magari per lui è un’altra argomentazione. Da avvocato civilista. Da narratore. Da scrittore. Io parlo da lettrice. Interagisco a distanza. Una distanza che forse diventa lontananza, anche dalla parola scritta, visto che è anche la distanza che si pone una volta finito il libro. Sì, perché la risposta mi è venuta a distanza di una o due settimane dopo aver letto il libro. E mi piace che un libro mi ponga dei quesiti. Insomma il nostro quesito in questione, che indaga il nesso fra gli studenti di Padova e la vicenda del locale fallito a Firenze, io lo interpreto così: sono i due lati della medaglia. Il passivo e l’attivo.
Cosa succede a non reagire? Il cuore si ferma. Cosa succede se si reagisce? Il cuore ricomincia a battere e a fomentare passioni. Il cappello della copertina, appoggiato sul bancone di un bar è una citazione di un mondo estinto, quello dei grandi scrittori del Novecento, ma anche una bellissima metafora che accompagna l’uomo da sempre. Leggo su Internet: “presente in tutte le civiltà, dagli antichi copricapi egizi alla ‘paglietta’ a tesa corta hipster-style di oggi, il cappello è un simbolo culturale che segna l’appartenenza, è un codice comunicativo, dichiara una visione del mondo ed è metafora della creatività individuale”. I nostri personaggi ce l’hanno fatta grazie alla loro creatività individuale. Lo sconosciuto dell’incipit non ce l’ha fatta, è stato schiacciato dalla crudeltà di una vita vissuta senza la fiamma della creatività. Perché rimasto solo. Perché nessuno si è preso cura di lui. Jacopo e Folco, alla fine del libro si danno del tu e si chiamano per nome. Non sono più il fallito e il curatore fallimentare, ma due uomini che festeggiano insieme la loro amicizia, con una «bottiglia di Dom Perignon, ghiacciata» (p.105) mentre: «fuori dal locale, il fresco della notte aveva penetrato la pietra della città che, affaticata e silente, si era abbandonata al sonno.» (p.105)
La città è la mia città, quella che conosco di più, la Firenze dei nottambuli e degli imprenditori della notte, che riecheggia le parole di Paolo Conte: “è la nostalgia del Mocambo, / per chi non lo sa, / un ritmo sconfinato di rumba / che se ne va per la città”.
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