STIRPE, di Marcello Fois
Ci sono romanzi che valgono non solo per la storia che raccontano, ma anche e soprattutto per le corde che riescono a far vibrare nel raccontare proprio quella storia.
“Stirpe”, primo libro della saga dei Chironi, è anche il mio primo approccio alla scrittura di Fois, e ne resto profondamente ammaliata.
È una prosa lirica, antica, evocativa, impregnata di uno spirito sardo in cui ogni gesto evoca qualcosa di mitico, ancestrale, ineluttabile, in cui i presenti continuano a parlare con gli assenti e a cibarsi vicendevolmente di ricordi, in cui il baluginare della felicità deve sempre cedere il passo al presentimento che qualcosa, prima o poi, andrà storto, perché “la felicità non piace a nessuno che non ce l’abbia”.
Vi si narra di Michele Angelo Chironi e di Mercede Lai, due anime con due passati da trovatelli che, una volta incontratesi e riconosciutesi, coltivano insieme il sogno di dare origine a una stirpe tutta loro. Dal nulla e in pochi anni, grazie al loro amore ‘ostinato, irremovibile, banale, cieco’, riescono a mettere su casa e un terreno e ad avviare un’attività sempre più preziosa per Michele Angelo e per i tempi, cioè quella di fabbro; riescono soprattutto a dare origine a una progenie numerosa e proprio su di questa, nonostante l’impegno a tenere modesta e invisibile allo sguardo altrui o a forze avverse la propria felicità, il loro sogno pian piano si infrangerà.
Il testo è suddiviso secondo una disposizione originale delle cantiche dantesche, dalla prima, il Paradiso (‘Scire se nesciunt’) alla seconda, l’Inferno (‘Scire nefas’) alla terza, il Purgatorio (‘Scire’), che sembra scandire progressivamente il lento e sempre più doloroso trapassare dall’inconsapevolezza all’impossibilità di sapere sino alla consapevolezza dell’ineluttabilità del dolore: “Il dolore si coniuga come un verbo difettivo, cambia radicalmente, ma è sempre, ostinatamente uguale”.
Nello scandirsi di questo stato d’animo, si intreccia la storia di un ‘piccolo fazzoletto di terra’, quello della provincia nuorese e del suo passaggio da abitato rurale a importante centro urbano, con la grande Storia che attraversa la penisola dal 1889 al 1943; vi passa “una storia minuscola che è il frutto, quasi la conseguenza, di una storia grandissima. Sono le briciole del banchetto quelle che si devono mangiare in questa fetta di mondo, ma, a ben guardare, e ben assaporare, da queste briciole si possono capire tante cose “.
Ecco allora il rimbombo assordante degli echi della prima guerra mondiale, i primi fermenti minacciosi e inquietanti del fascismo, le ondate distruttive del secondo conflitto sia su quel minuscolo fazzoletto di terra sia sulla famiglia Chironi, che vi pagherà inesorabilmente in lacrime, mancanza, perdita, oblio il prezzo della propria felicità.
E in mezzo a questa temperie, pagine di una poesia indescrivibile su cui sono dovuta tornare più volte per intuirne il senso riposto, quasi mistico, eppure così vivido, come le lettere scritte dal fronte da Luigi Ippolito, uno dei figli, di un’intensità struggente; l’amore tra fratelli scandagliato in molteplici sfumature di gesti o sussurri di parole; i dialoghi tra le anime dei vivi e le anime dei morti in un susseguirsi di ‘Ti ricordi?’ perché “è tremendo quando il dolore si manifesta in forma di ricordo, in forma di odore e di sapore”.
Memorabili poi le ultime pagine, quelle in cui Michele Angelo rievoca le parole con cui ha insegnato al figlio Gavino l’amore per il mestiere di fabbro; tutte le fasi descritte per la forgiatura del metallo sono una metafora per esortare, con animo di padre, alle qualità con cui un uomo deve saper affrontare la vita, incluso il saper cadere, subire ma per fortificarsi ed evolversi in meglio.
Eppure, in così tanta sofferenza che davvero, a tratti, sembra rievocare l’ineluttabilità di alcuni miti greci o certi microcosmi umani e spazio-temporali come quello di Acitrezza, si apre un piccolo spiraglio di luce, che arriva da lontano e tuttavia ci è sempre appartenuto, senza che lo sapessimo.
Forse è questo il nuovo Purgatorio, “E la fine non è una fine” ma, si spera, un nuovo inizio.
Recensione di Magda Lo Iacono
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