Tra i più gettonati durante il lockdown: LA PESTE, di Albert Camus
Recensione 1
Questo romanzo è un’opera magistrale, e in quanto tale difficilmente riconducibile a un giudizio che ne dia un’idea esaustiva. Probabilmente averlo letto in questo periodo, pur tra mille reticenze iniziali, me lo ha reso alla fine più vicino e attuale che mai, a dispetto dei suoi ca. 70 anni di vita.
Ciò che è destino individuale, si fa presto storia comune di sentimenti condivisi.
Ci sono pagine di una lucidità straordinaria, in cui lo scrittore si sofferma sulla peggiore delle pene inflitte dal morbo, e cioè l’esilio, la separazione dalle persone amate, che pone a un certo punto nella condizione di sentirsi privi di memoria del passato e di speranza del futuro, installati nel presente, in un hic e un nunc a cui cercare di dare un senso.
E sta proprio qui l’essenza di questo romanzo, nella domanda sottintesa che sembra animarlo fin da subito e cioè: come vivere un simile presente, con quale predisposizione d’animo, dandogli quale valore, se mai un valore possa averlo?
Ecco che allora in un continuo intrecciarsi e scambiarsi di punti di vista, si dispiegano le vicende di alcuni cittadini di Orano, tesi in una lotta cupa tra felicità e astrazione, tra ricerca della verità assoluta o delle infinite verità sperimentabili dall’uomo già qui, sulla terra, di fronte al morbo ma essenzialmente di fronte al male, a ciò che ci piomba addosso senza che l’abbiamo scelto.
C’è il medico che si fa testimone di sofferenza e ausilio di speranza e nel suo umanesimo laico decide di portare avanti, con onestà, il proprio compito di uomo senza facili cedimenti a propositi di santità o di eroismo; c’è chi decide che nella partita tra flagelli e vittime, bisogna provare a stare sempre dalla parte di queste ultime e anelare alla pace con gli strumenti della comprensione e della compassione; chi nel terrore ci sta a suo agio, perché improvvisamente può sentirsi procedere ‘insieme agli altri’, e chi invece in quella forzata sospensione inizia ad avvertire la prigione della solerzia, cercando consolazione nella poesia e nella tenerezza; chi ha il sollievo egoistico di un grande amore ma prima di goderne pienamente dovrà decidere da che parte stare.
E poi c’è il credente, chi di fronte al delirio sempre più disumano della peste deve decidere se far vacillare la propria fede o farle trovare una nuova strada, che non sia quella dell’accettazione rassegnata del male ma di un fatalismo attivo che, pur in mezzo alle tenebre, continui a cercare il bene.
RIMANERE, questa è una parola chiave del romanzo, cui ognuno sembra approdare a proprio modo, e Camus è straordinario nel rendere appieno le contraddizioni che durante questo percorso colgono l’essere umano, il dubbio, i desideri inconfessabili, quella sensazione di perenne smarrimento che se non è di tutti, è comunque di molti.
E poi… tutto ritorna alla normalità, ma svanito il morbo chi è sopravvissuto ne sarà rimasto davvero indenne?
“Sì, avevano tutti patito insieme, nella carne come nello spirito, una vacanza difficile, un esilio senza rimedio e una sete mai appagata. Fra i cumuli di morti, le sirene delle ambulanze, i segnali di quello che si usa chiamare il destino, lo scalpiccio ostinato della paura e la rivolta terribile del loro cuore, non era mai cessata la voce che aveva esortato quelle creature spaventate a ritrovare la loro patria. Per tutti, la vera patria era oltre le mura di quella città oppressa. Era nella macchia odorosa sulle colline, nel mare, nei paesi liberi e nel peso dell’amore. E distogliendosi con orrore dal resto, era verso di lei, verso la felicità, che tutti volevano tornare… Almeno per un po’ di tempo, sarebbero stati felici. Sapevano, adesso, che c’è una cosa che si può desiderare sempre e qualche volta ottenere ed è l’affetto umano. Per tutti coloro che invece si erano rivolti al di sopra dell’uomo a qualcosa che non riuscivano neppure a immaginare, una risposta non c’era stata”.
Recensione di Magda Lo Iacono
Recensione 2
Lo stile semplicissimo, schietto, diretto tanto da riuscire a veicolare il lettore nell’immaginare gli occhi sgranati e la bocca chiusa a dittongo dei personaggi, tipicamente francesi, delineati con una notevole essenzialità nei dialoghi di un “teatro dell’assurdo”, è l’elemento, a mio avviso, che di questo libro ne fa un capolavoro.
Mi piace lo stile di Camus, giacché la cronaca del flagello, quale la peste, non arriva mai a toccare le corde dell’isterismo anche nell’apice della sua più toccante drammaticità.
Lo stile mantiene toni sinceri in un crescendo equilibrato apparentemente insensibile ed indifferente, proprio come il dott. Bernard Rieux, cronista suo malgrado.
Ma è proprio in questa insensibilità e in questa indifferenza che la sofferenza s’innalza in un IO collettivo.
I passaggi diventato via via corali e i personaggi acquistano forma e consistenza nelle loro singolari peculiarità.
E anche Dio, nelle vesti del prete Paneloux, da prima vendicativo nei confronti di un’umanità peccatrice, scende dal suo pulpito e si associa al dolore degli uomini con il suo Figlio in croce.
Dall’astrazione del dolore alla consapevolezza della sofferenza collettiva, si raggiungono concretamente tutti i sentimenti umani e se il linguaggio rimane filosoficamente superficiale, l’intensità delle parole rimbomba con clamore dentro ognuno di noi: un “Noi” pienamente collettivo dove l’orgoglio del “Io” si frantuma in piccolissime scaglie.
L’angelo nero della peste, o di altro flagello, qualunque esso sia, non risparmia nessuno, non fa distinzione alcuna e l’umanità tutta si apre nella consapevolezza di dovere imparare a scendere a patti con il tempo e a riequilibrare continuamente il desiderio irragionevole di tornare indietro o invece affrontare la corsa del tempo.
Camus con “La Peste” inizialmente disegna un quadro dalle sole sfumature grigio topo riconducibili a un labile “io”, prepotentemente inviolabile e intoccabile, per poi, nel percorrere gli eventi, utilizzare tonalità diverse, più intense e colorate, raffiguranti una collettività fortificata dalla singola fragilità. Un’umanità che attraversa il mare della vita su una barca al cui timone ci sono la consapevolezza, la solidarietà, l’amicizia ( al riguardo segnalo il toccante passaggio fra il generoso dott. Rieux e il morente Tarrou, uomo bonario e sempre sorridente, “capace di provare gusto per tutti i piaceri comuni senza esserne schiavo”) e l’amore.
Perché la vera tragedia in ogni flagello (peste guerra o epidemia che sia) è che l’abitudine alla disperazione possa essere peggiore della disperazione stessa.
“Tarrou aveva perso la partita, come diceva. Invece lui, Rieux, che cosa aveva guadagnato? Soltanto di aver conosciuto la peste e di ricordarselo, di aver conosciuto l’amicizia e di ricordarselo, di conoscere l’affetto e di doversene un giorno ricordare. La conoscenza e la memoria erano tutto ciò che l’uomo poteva guadagnare al gioco della peste e dalla vita. Forse era questo che Tarrou chiamava vincere la partita!”
Recensione di Patrizia Zara
LA PESTE Albert Camus
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