TUTTA INTERA, di Espérance Hakuzwimana (Einaudi – settembre 2022)
La narrazione è difficile. A volte non ci corrisponde. Cercarla ci porta laddove culture, esperienze e visioni diverse possono trovare un dialogo. Bianco e nero. Nero e bianco.
«Due mondi – e io vengo dall’altro.» Il verso citato nell’epigrafe è tratto dalla poesia Diario bizantino di Cristina Campo in “Tigre Assenza” (Adelphi, 1991, p 45). Il messaggio è chiaro. L’autrice vuole che il lettore sappia sin dall’inizio come stanno le cose. Lei è nera. Adottata. Donna. Così la protagonista del romanzo. Raccontare la sua storia è un gesto di coraggio e di presa di coscienza: esiste una nuova generazione di bambini adottati che ora hanno all’incirca trent’anni e di cui non esiste una narrazione letteraria. Esistono tantissime storie raccontate, autobiografie, ma non esistono punti di vista di chi l’adozione la subisce, non la sceglie.
Capovolgere la narrazione dell’adozione. Descrivere il dolore, i sentimenti, le emozioni. Questi sono gli obiettivi del libro.
L’incipit è molto violento. Volutamente. L’autrice cerca un modo per esprimere il desiderio di omologazione di chi deve vivere in una famiglia bianca con la pelle nera. La diversità del colore della pelle deve essere cancellata. Come? Con la varecchina. “Tutta intera” si apre con le riflessioni della protagonista bambina di nome Sara alle prese con questo pensiero ossessivo. Essere come suo papà e sua mamma. Per fortuna i genitori se ne accorgono evitando il peggio, ma senza veramente comprendere il malessere di Sara. Saranostra la chiamano. Acuendo il mancato senso di appartenenza di Sara. L’affetto alle volte si esprime con termini inadeguati. Sara ha bisogno di altro, di un altro che spesso non sappiamo cosa sia, visto che sono situazioni nuove da scoprire, sia da parte dei genitori che da parte dei figli adottivi. Non ci sono modelli per famiglie miste. E il modello delle famiglie bianche non funziona. Sara viene cresciuta in una famiglia bianca come se fosse bianca anche lei. Ma non è così.
Il tema dell’identità è centrale in tutto il libro. Non essere come gli altri implica un’elaborazione, un’accettazione, che piano piano la protagonista compie accettando il dolore ma anche la gioia che il percorso di vita incontra. La ricerca della propria identità implica la ricerca delle parole per raccontarsi. Che hanno bisogno di nuova geografia. Di nuova cultura. Di interazione con gli altri: «Mi preoccupa questo non saper più riconoscere i miei confini, la pelle che mi ha sempre contraddistinto. Mi rende nervosa. Mi scopro infastidita perché non sono più la sola. Sono confusa perché non sono più sola.» (p 56)
Ma nemmeno cercare di omologare gli altri a noi serve: «Sara vieni qui: mi dici perché hai rovinato la foto mia e del papà? Non l’ho rovinata. Ci ho passato sopra il pennarello nero, adesso non si vede più niente. Adesso è come me.» (p 63) Forse è meglio cercare di fare le cose insieme. L’integrazione non piace all’autrice. Implica un’ideologia classista e razzista. L’interazione è più rispettosa e adeguata. Convivere e trovare le soluzioni interagendo significa che tutti si mettono in gioco, non solo chi (adottato) è chiamato ad integrarsi (adattarsi agli altri senza che gli altri facciano il minimo sforzo). Così lo zio Robi, nel romanzo “richiama” la nipote: «Ricordati che devi mettere le radici, Sara, devi fare come i nostri peschi.» (p 89) Ma anche il padre, professore di lettere, pur amandola e avendole trasmesso l’amore per le parole in un contesto culturale aperto e dialogante rimane impigliato negli ingranaggi del pensiero integrante dominante: «ormai hai ventitré anni: non sono pochi […] stai perdendo tempo prezioso. Capisci cosa vuoi e fai in modo di ottenerlo.» E Sara: «Prima vogli capire chi sono. A suo modo, amandomi, mio zio mi ha piantata e mi ha tenuta in vita sperando nelle radici. Ma sono un innesto fallito. La radice è recisa e mi chiedo se l’ha capito […] e se ha avuto paura.» (p 88)
Il romanzo procede come flusso di coscienza, fra passato e presente, infanzia e prime esperienze lavorative. «Ci sono momenti in cui ho la netta sensazione che parti di me stiano andando a male. Mi spappolo, mi decompongo e a tavola, in macchina, in bagno mi sento solo sbagliata e di troppo. Quando mi chiedono Cos’hai mi infastidisco, qualcosa brucia dentro e mi porta lontanissimo.» (p 135)
La presa di coscienza è dolorosa: «Per avere la metà di ciò che vuoi dovrai fare il doppio, Saranostra.» (p 169) Ingiusta: «è una truffa se dici così. Forse volevi dire inganno? Tranello. È una frode. Un raggiro. Una fregatura. Allora una bugia! No, una bugia no.» (p 169)
Ma vi è un altro piano interessante nel percorso della protagonista: rendersi conto che lei se ha la pelle nera non è per niente uguale ai ragazzi del doposcuola dov’è chiamata a fare un percorso integrativo (e non interattivo…). Qui si accorge che lei non ha gli strumenti per interagire con questa nuova generazione. Ma si mette in gioco. E non ci sono né vincitori né vinti. Ma persone che cercano di capire le ragioni (o le parole) degli altri: «A Basilici stanno bene, zio, non hanno bisogno di noi come dici, come dicono le signore in chiesa che fanno la carità.» (p 88)
Basilici è abitata da famiglie di emigrati. Qui la narrazione è ancora diversa da quella di Sara, la protagonista, vissuta fra i bianchi dall’altra parte del fiume (il Sele). E chissà forse qualcuno di loro ci penserà? Intanto provocano la loro insegnante nera come loro, ma cresciuta da (e con) bianchi: «Ma profe, ma chi la mette Basilici dentro ai libri?» (p 94)
E non solo. Sono più ricchi di lei culturalmente. Di parole ne sanno più di lei. Intanto sanno tutti almeno tre lingue. E poi se le inventano loro le parole: «La lingua è un campo di battaglia […] A Basilici la lingua è un terreo di gioco e loro si divertono, io invece arranco. Dialetti, accenti, cadenze, lingue nuovissime o storpiate, antiche. Quando supero il Sele, quello che mi sembrava arabo, diventa lingua latina, slava, non combacia mai con le mie supposizioni, con i volti che incrocio.» (p109)
La lezione Sara la impara. E noi lettori, alla fine del libro siamo un po’ come Sara, avvertiamo che siamo noi quelli che devono mettersi in gioco; soprattutto se vogliamo domani capire il mondo che costruiranno le nuove, nuovissime generazioni, sempre più colorate, multietniche, inclusive e multilingue.
Un noi diverso, da quello dei ringraziamenti finali, dove l’autrice sottolinea: «questo libro è su di noi e per noi. Finalmente.», dove noi sta per: «tutte le persone a cui almeno una volta nella vita hanno detto che avevano un nome difficile, una pelle difficile, una storia difficile.» (p 206)
Ma riusciremo un domani a includere le tantissime variegate e sfaccettate identità nazionali in un noi italiano per tutti uguale?
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
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