UN CAZZO EBREO, di Katharina Vockmer
Recensione 1
Il titolo sembra introdurre ad un romanzetto volgarotto ma non è assolutamente così: si tratta di un romanzo dissacrante e provocatorio sugli uomini, le donne, le relazioni tra loro e le colpe del nazismo e del genocidio degli ebrei.
Katharina scrive sulle donne soprattutto per le donne: si sente inadeguata, fin da quando le impongono di sedersi a gambe chiuse invece che aperte a differenza degli uomini o le impongono di coprire le gambe e mettere dei vestiti invece dei pantaloni, e constata quanto il mondo sia rimasto a misura d’uomo, malgrado la recente emancipazione, anche solo valutando le forme dei robot sessuali. Le donne dovrebbero essere piccole, occupare poco spazio ( qui si potrebbe introdurre il tema della rivolta contro gli stereotipi femminili introdotto da libri dedicati a donne che mangiano molto con gusto, per occupare il loro spazio del mondo) e dedicarsi ad essere madri, circostanza di cui la nostra autrice non vuole nemmeno sentir parlare, anche se una volta prova un’etichetta con allusione alla maternità, per vederne l’effetto.
La nostra protagonista non vuole nulla di tutto ciò. Rifiuta fin da bambina le cure della madre, che vuole nascondere le sue tendenze e renderla femminile, perché la diversità è osteggiata dalla società. Come capisce dopo un percorso estremo dove cerca di apprezzare la sua natura di donna, lei è diversa e prende una soluzione estrema, che ( ipotizzo) forse non la soddisferà, perché sembra condannata alla diversità.
Il linguaggio è sboccato come il titolo ma piuttosto incisivo; del resto il romanzo breve è in forma di dialogo o meglio di monologo e non sempre i dialoghi di questi tempi sono aulici.
Al contempo la protagonista riflette su un tema molto delicato, la memoria della Shoah e le colpe del nazismo.
In sogno crede di essere Hitler e si interroga circa le caratteristiche fisiche che lo allontanano dall’ariano perfetto, in una scenetta molto divertente, come sempre divertente far credere di aver un’ossessione sessuale per lui allo psicologo da cui viene mandata dopo l’aggressione ad un collega.
In merito alla Shoah gli ebrei nei ricordi della protagonista sono sempre presentati come morti coi loro memoriali, mai come esseri viventi suoi vicini.
La protagonista nella sua cittadina tedesca spettrale in rovina non ha mai visto un ebreo, come se fossero stati spazzati tutti via, ma ha sognato di sposarne una, per espiare le colpe del popolo tedesco in generale e in qualche modo anche della sua famiglia, con il nonno capostazione vicino ai campi, che non ha fatto del male ma sapeva tutto circa i carichi dei treni e ha visto i disperati nei vagoni, senza mai bloccare i trasporti o ostacolarli. Una banale storia che fa però rabbrividire, perché il nonno era gentile e voleva tanto bene alla sua famiglia. Non ci si riesce mai a spiegare come mai persone gentili possano, pur compiendo il loro dovere, agevolare crimini orrendi, senza essere intrinsecamente cattivi.
Il libro è sicuramente originale in un panorama di libri piuttosto ordinari sia per costruzione sia per temi. Da leggere assolutamente.
Recensione 2
‘Urticante’
Venire in contatto con questo monologo, irrita e provoca prurito … però piace ‘grattare’ la parte irritata e quindi gratti (leggi)!
Non faccio fatica a credere alla grande risonanza già avuta.
Un’opera prima, una giovanissima scrittrice tedesca, che scrive in inglese e vive a Londra, una traduzione divina e al vetriolo, un titolo provocatorio discutibilissimo, ok, ma azzeccatissimo, un testo pregno ma compatto, 110 pagine trascinanti e piene di: storia (quel passato che è presente sempre), crisi di identità, paure, sesso spregiudicato, delicatezza e volgarità assieme, ribellione e voglia di riscatto, tanta intelligenza!
Di un libro cerco sempre una frase, qualche riga che più delle altre sento possano riassumerlo (per me non in assoluto). In questo caso non è stato facile; questo libro è un fiume in piena, un ininterrotto flusso di coscienza in bilico tra ironia, audacia e saggezza, una logorroica descrizione di sé, di ciò che si è stati, si diventa … ad ogni modo “l’unico vero conforto che possiamo trovare nella vita è essere liberi dalle nostre bugie”. Sbam!
Siamo a Londra, nello studio del Dott. Seligman, medico ebreo, del quale a mala pena si intravede la nuca e il capo con pochi capelli. Nella stanza troneggiano sette cornici che contengono ‘foto dei suoi figli e nipoti’ ma anche, forse ‘dei suoi sette peccati preferiti’. Quasi come una voce fuori campo inizia la confessione fiume della protagonista, una giovane donna tedesca. Una relazione con K, il prima e dopo K, l’infanzia e il lavoro perso, un’eredità notevole ricevuta dal nonno capostazione di una piccola città della Slezia.
Un monologo irrefrenabile e il tono si fa subito irriverente e perverso “So che potrebbe non essere il momento migliore per sollevare l’argomento, dott. Seligman, ma mi è appena venuto in mente che una volta ho sognato di essere Hitler” in realtà ‘sono soltanto stanca’ ‘io non sono i miei pensieri’ e ‘ci sono percorsi diversi di consapevolezza e modi diversi di reagire alla nostra consapevolezza’ e ‘non capisco perché ogni cosa che riguardi gli uomini debba sempre essere così sovradimesionata’ e che ‘le persone pensano di avere un ruolo nel proprio passato, ma che sono anche libere dalle fatiche della colpa … si immagina cosa significa per qualcuna come me sognare il lusso di un passato pulito?’.
Tra un alternarsi di fisicità e memoria, di sacro e profano, di uomini e donne, di mamme e padri e di zii e zie e di gatti che abbaiano, si svela la solitudine e l’oppressione di chi vuole sfidare la società moderna e le convenzioni sociali, la cosiddetta politically correct.
Da una parte il desiderio di riparare ai fatti della storia con le nostre più intime scelte personali, dall’altra la necessità di dover sempre recitare una parte “Quando ero più giovane ho sempre pensato che l’unico modo per superare veramente l’Olocausto sarebbe stato amare un ebreo”.
Una bella voce femminile, una forte critica verso la sua identità nazionale, un libro pieno di segreti e traumi, suoi e di K, della Germania e del popolo ebreo, in cui i popoli desiderano segretamente le guerre per poter torturare poi i propri discendenti e per trovare il pretesto di ‘poter fare nuovamente sesso vero e proprio e non quella versione addomesticata che la libertà e la pace possono offrire’.
Lo si legge in apnea e si finisce per pensare che ‘sia ciò che la solitudine fa alle persone’, far dimenticare ‘come esprimere i loro desideri’.
Recensione di Nunzia Cappucci
UN CAZZO EBREO – katharina Volckmer
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