UN TEMPO GENTILE, di Milena Agus (Nottetempo)
La dedica del libro è al femminile: sono la madre e le zie sarde dell’autrice ad esserne protagoniste. Le prossime parole, nella pagina successiva sono di Tonino Guerra e parlano dell’erba che copre tutto: metafora del tempo che passa e della natura che si riprende gli oggetti inanimi relegando al passato ogni traccia di vita e condivisione. Passiamo alla pagina successiva e come in una pièce teatrale ci vengono presentarti i personaggi e poi finalmente a pagina 13 inizia il primo capitolo: il paese perduto. Il paese perduto è senza nome: ce ne sono tanti in Sardegna, dice la scrittrice in un’intervista.
Non ha importanza dare un nome. Quello che conta è vedere cosa rimane. E rimane poco. I giovani se ne sono andati a vivere la loro vita altrove. I vecchi sono ormai diventati tristi e grigi come le loro case alle cui pietre si sovrappongono cemento, lamiere e eternit. I campi pure sono infelici: le culture ricche, rigogliose e diversificate di un tempo sono state sostituite con la monocultura del carciofo e le biomasse per il gas.
Per Milena Agus è davvero un dispiacere andare in giro per la Sardegna e vedere questi paesi, ridotti così. È questo è il primo dolore che ha ispirato questo romanzo. Il secondo punto dolente riguarda il senso di colpa che avverte l’autrice nei confronti degli immigrati e del grosso problema dell’immigrazione. Percepisce la complessità della questione, ma riconosce di non fare nulla nel suo piccolo per tutte queste persone, vittime del fenomeno. Allora la domanda è: cosa succede se la possibilità di fare del bene a queste persone viene sbattuta in faccia?
Succede l’inaspettato, una sorta di piccolo miracolo: è così che nasce “Un tempo gentile”. In un paesino grigio e spento sardo sbarcano “gli invasori”, un gruppo di migranti con tanto di volontari, offesi perché non è certo questa l’Europa che si aspettavano. A loro è stato assegnato un edificio che è poco più di un rudere. E nell’attesa che si chiarifichi l’equivoco, sardi e migranti sono costretti a convivere. Il lettore viene così avvolto nel racconto corale di questa storia. Sono le donne del paese a parlare in coro. Sono loro che aiuteranno con piccoli gesti i nuovi arrivati e che piano piano costringeranno anche i mariti ad essere meno burberi. Il tempo gentile è il tempo che fa rivivere il rudere che si era coperto di erba, (l’erba di Tonino Guerra in esergo), è il rapporto che nasce fra migranti e sardi nonostante tutto, fatto dei piccoli gesti della quotidianità che dispensano emozioni e umanità al di là del colore della pelle, delle religioni diverse, se siamo etero o gay. Il lettore viene coinvolto in questo tempo: sì, la gentilezza è proprio una qualità della scrittura di Milena Agus.
Qualità che lei stessa dice di ricercare, scrivendo e riscrivendo affinché la lettura diventi piacevole. “Un tempo gentile” è stato scritto e riscritto 14 volte prima di trovare la sua veste migliore. Perché l’obiettivo è anche quello di far passare un pomeriggio gradevole al lettore. E allo stesso tempo porre le domande, quelle giuste, per affrontare in maniera più vera la questione dell’immigrazione. E la domanda è: ma noi siamo all’altezza dei loro sogni? Che cosa siamo diventati? Cosa resta di umano in questo paese sardo, dove si litiga per un etto di ceci e dove la campagna è rovinata da scelte inquinanti e a discapito della vita contadina di un tempo? La risposta che troviamo nelle pagine di questo libro ha il sapore di questo piccolo brano:
«Ci sentivamo sprecate, ridotte a produrre soltanto carciofi e gas con le biomasse, mentre un tempo sapevamo ascoltare la natura e avevamo instaurato un rapporto di affetto e di solidarietà con i vegetali che coltivavamo. Ci prenderete per matte, ma noi con i pomodori, le lattughe, i cavoli, i meloni, i finocchi, ci parlavamo e loro rispondevano. Era appassionante, divertente. Invece ora il rapporto con le biomasse restava freddo e quello con i carciofi piuttosto noioso.» (p. 93)
Non che le donne sarde e gli invasori riescano a trovare risposte durature e definitive però la loro condivisione di un ‘tempo gentile’ scioglie pregiudizi e apre porte. Ecco che le due comunità si scambiano doni e ricette, come si evince da questa conversazione:
«Noi donavamo il pane e gli invasori ci facevano i pacchettini di cibi esotici da portare a casa.
“Non dimenticate i doggy bags,» ordinava l’Ingegnere.
“Scusi?”
“Gli anglosassoni hanno l’abitudine di farsi dare gli avanzi dei loro pasti dei ristoranti, dicendo che sono per il cane”.
I doggy bags erano uguali per tutte, anche se alcune di noi, non solo non avevano fatto il pane, ma neppure avevano contribuito con gli ingredienti. Andandocene, le criticavamo alle spalle: “Ha messo un etto di ceci e si è portata via felafel per un reggimento e modditzosu per tutta la settimana”.»
(p. 69)
Un altro aspetto che emerge in questo brano, è la cattiveria delle donne che non perdono un’occasione per criticarsi le une con le altre. A questo proposito la Agus, alla presentazione del libro per il Festival sardo Entula 2020, svela ai suoi lettori, che Ginevra Bompiani, sua grande amica e editrice l’ha sempre spronata a ‘mettere il pungiglione’ nei suoi scritti. Ma la cattiveria della brava gente non ha niente a vedere con la cattiveria dei veri cattivi.
Quelli non ci sono nel tempo gentile di Milena Angus. E così, quando finisce la storia, anche se le nostre protagoniste non hanno le idee più chiare, si sentono fiere della loro esistenza e delle loro radici sarde che senza la lingua rischiano di rimanere sepolte e dimenticate. Ed ecco il bellissimo finale del libro che ci riporta in sardo la citazione iniziale di Tonino Guerra in esergo: «S’erba a pagu a pagu adi interrau tottu / e no ti beniada mancu de penzai / chi omminisi e femminasa / proprriu ingunisi, arrianta impari / castiendu una matta florida.» (L’erba piano piano ha sepolto tutto / e non ti veniva neanche di pensare / che degli uomini e delle donne / proprio lì, appena un anno prima, ridevano insieme / nel guardare un albero fiorito.)
Cari amici lettori, la storia, la vitalità dei personaggi e le emozioni dell’intreccio narrativo ve li lascio scoprire nel vostro tempo di lettura che vi auguro sia gentile.
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
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