UN’OSCURA VITALITÀ, di Thomas Wolfe (PaginaUno)
Se non fosse stato per il film “Genius”, mi sarei perso Thomas Wolfe, nonostante abbia frequentato a lungo gli scrittori americani della “Lost Generation”. Nei suoi racconti scorre il sangue di un’America contrapposta, teatro di cultura e ferocia, dove le pallide radici europee affondano nella musica nera dei sobborghi, mentre un altro treno abbandona la stazione verso un viaggio senza ritorno. Baciato da un’improvvisa fama, Wolfe godette a tal punto dei favori del pubblico da esserne del tutto dimenticato a seguito di un’improvvisa morte.
La sua prosa è magmatica, fuori dai binari, espressionista come un quadro di Munch o Kokoschka, avida di particolari, fitta dei richiami di una foresta di simboli. Non possiede l’algida eleganza di Scott Fitzgerald, l’asciuttezza pragmatica di Hemingway, l’impatto sociale di Caldwell, conserva piuttosto lo sguardo dissociato di un diverso angolo di prospettiva, appena percepibile in qualche futura pagina di Faulkner o Kerouac, o nei brani di Cheever, sublime Cechov di periferia.
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