VAGABONDI, di Olga Tokarczuk
“Amare la propria lingua”, dice la traduttrice Barbara Delfino, “conoscere le parole per dirlo”, dice la scrittrice Olga Tokarczuk “non era concesso alle donne in tempi passati e antichi”. Ecco perché la profezia diventò un modo per esprimersi delle donne quando ancora avevano pochi strumenti, poche parole a disposizione perché per loro non esistevano libri o tempo per la lettura. ‘Parlare! Parlare!’ è il titolo di un capitoletto a pagina 167 che finisce così: «Chi non ha imparato a farlo rimarrà per sempre chiuso in trappola.» E se la profezia è una trappola, dobbiamo indagare il sapere.
Oggi abbiamo uno strumento fantastico, sottolinea l’autrice: «WIKIPEDIA. Mi sembra il progetto di conoscenza più onesto che l’uomo abbia mai realizzato.» (p.70) Ma non è il solo: «Per un giusto equilibrio deve quindi esistere un altro tipo di raccolta del sapere: quello che non sappiamo, il suo rovescio – ciò che non può far parte di nessuna lista di contenuti, tale che nessun motore di ricerca può gestire; data la sua enorme grandezza non potrà essere percorsa parola per parola ma si infileranno i piedi tra le parole, in profondità cavernose tra i concetti. A ogni passo scivoleremo. Sembra quindi che l’unica possibilità sia quella di muoversi in profondità. Materia e antimateria. Informazione e controinformazione» (p.71)
Questo è il viaggio che il lettore intraprende quando attacca “I vagabondi” della scrittrice polacca Olga Tokarczuk. Il romanzo ha vinto il prestigioso Man Booker International Prize e la scrittrice ha ottenuto il Premio Nobel per la letteratura per l’anno 2018 «per un’immaginazione narrativa che, con passione enciclopedica, rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita». Essersi conquistata il pubblico inglese è stata una grande gioia per la scrittrice polacca che ama molto essere considerata una scrittrice che ha humour – proprio nel senso britannico del termine.
Definirlo solo un romanzo è un po’ riduttivo. L’autrice stessa in generale non ama le definizioni, le classifiche e subire le limitazioni delle catalogazioni: la sua scrittura va oltre, indaga il pensiero e il viaggiare umano e non rimane incagliata in un intreccio o una trama narrativa. Il racconto appartiene alla capacità di sostare sulle cose il tempo giusto per vederle e farle vedere al lettore e poi via, il viaggio continua. D’altronde, questa capacità di spostarsi, di muoversi, Olga la scopre da bambina osservando le acque del fiume Oder: «aveva il suo posto nella gerarchia dei fiumi, un visconte di provincia alla corte di sua maestà il Rio delle Amazzoni. […] scorreva come voleva, non controllato ormai da molto tempo» (pp.6-7). Sin da piccola è attratta dai viaggi: «è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità. Ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe durare addirittura per sempre.» (p.7)
Ma un’altra sua caratteristica è quella che definisce la ‘Sindrome da Disintossicazione Perseverante’ e cioè: «un’attrazione verso tutto ciò che è rotto, imperfetto, difettoso, screpolato. […] Tutto quello che è fuori regola, troppo piccolo o troppo grande, sovradimensionato o incompleto, mostruoso o ripugnante. […] Ho l’incessante e faticosa convinzione che proprio qui la vera esistenza si rompa in superficie e riveli la propria natura.» (pp. 9-20) “I vagabondi” è stato paragonato a un certo tipo di letteratura da viaggio e fa pensare alle opere dello scrittore tedesco Winfried Gerog Sebald.
Entrambi gli scrittori fantasticano, mettono insieme storie, aneddoti e divagazioni, raccontano viaggi o fatti vissuti in prima persona: sui dettagli si aprono nuovi spunti e si diramano tutte le altre storie. Per fare qualche esempio, “I vagabondi”, raccoglie notizie come quella della sorella di Chopin che portò il cuore del musicista da Parigi a Varsavia, oppure dell’anatomista olandese che scoprì il tendine di Achille, o, ancora, del bambino nigeriano esposto alla corte imperiale d’Austria e poi, dopo la morte, impagliato.
Tutte storie che hanno colpito la curiosità dell’autrice viaggiatrice, che si sofferma a trovare le parole solo per quello che ‘le fa bene’, perché dice che: «quel che mi fa male lo cancello dalle mie mappe.» (p.93) La scrittrice a lungo non ha potuto viaggiare con il suo passaporto, e solo dopo il crollo del muro ha iniziato a spostarsi in Europa, iniziando a studiare psicologia in Germania; queste avversità, è come se avessero lavorato nei sotterranei della fantasia, dando forma alle caotiche meraviglie che descrive. Olga Tokarczuk considera Moby Dick la sua guida (p.69): Herman Melville, l’ateo mistico, capace di spostarsi dentro e fuori di sé, di farsi carico delle proprie intuizioni e catapultarle nello spazio, con una semplicità che non diventa mai rivelazione, ma solo condivisione.
Per Olga Tokarczuk non esiste un dio, ma un corpo e tante parole, strumenti necessari per seguirlo il corpo nel suo andare ovunque, spesso contro tutti. Il potere della scrittura e della lettura è proprio questo: riscrivere la letteratura cosmopolita trasformando tutto in punti luminosi che le parole possono accendere e spegnere, opponendosi alla falsità di ogni cosa morta. A dare la vita sono le parole. Per ogni pagina scritta, dice l’autrice, ne ha lette mille. La prosa è una sorta di magia. Il romanzo per Olga Tokarczuk è la miglior invenzione dell’umanità. Lavora nel tempo. Frammenti si incastonano nella memoria. È come fare zapping. Tutto sommato, perdersi nel sorriso della hostess è una gioia che si tiene viva, una «specie di promessa: forse rinasceremo e questa volta lo faremo nel luogo e nel momento giusto» (p. 374)
Si dice che “I vagabondi” sia uno dei primi libri canonici del nuovo millennio: ironico al punto giusto sull’uso delle nuove tecnologie, modernissimo ma anche ancestrale, biblico e punk, con il suo spostare il lettore continuamente sulla scia delle onde e del vento.
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