VILLA DEL SEMINARIO, di Sacha Naspini (E/O – gennaio 2023)
“Le domande erano sempre le stesse, da spaccarsi la testa: dov’erano andati tutti? I partigiani, gli ebrei di Maremma… Passata la guerra erano spariti: non sentivano anche loro l’affronto del silenzio? A volte René ci provava, ma trovava nei compaesani un muro, identico a quello della villa. Per esempio andava a farsi segnare i calmanti dal Salghini. Lo fissava per tutto il tempo, come a dire <Perché non mi chiedi mai del campo?>”
Siamo a Le Case, il paese piantato nella pancia di Maremma che chi è un lettore di Naspini già conosce. È il novembre del ’43, e il vescovo ha la bella idea di affittare il seminario estivo ai tedeschi per farne un campo di internamento dove raccogliere gli ebrei di Maremma e dell’alto Lazio, che in seguito verranno deportati nei campi di concentramento. Gli abitanti del paese sono sconcertati, non si spiegano come un vescovo possa aver fatto una cosa del genere, e se dietro non vi sia un qualche motivo segreto. Ma in sostanza, più che parlottarne tra loro non fanno. Un po’ per paura, un po’ perché di problemi ne hanno tanti anche loro: l’inverno che sta per arrivare, e che sarà terribile, già morde forte le ossa, la legna scarseggia e il cibo ancor di più. Così, quando i soldati portano gli internati in paese a prendere aria, e li lasciano a gelare nella piazza, tutti voltano la faccia dall’altra parte e sgattaiolano via il più in fretta possibile.
Ad assistere rassegnato allo spettacolo settimanale, dietro i vetri della sua bottega, c’è anche René. È il ciabattino del borgo, soprannominato Settebello perché da ragazzo ha perso tre dita nel tornio. A dire la verità René una sua piccola forma di resistenza la mette già in atto: fa la “guerra delle scarpe”: quando dal seminario gli portano le calzature da riparare, negli scarponi dei soldati infila i chiodi in un modo tale che dopo alcuni giorni le punte inizieranno a forare i tacchi e le suole e feriranno, e magari causeranno anche qualche infezione, ai soldati (per dirla tutta, questo lavoretto lo fa anche alle scarpe delle suore). Ma non è abbastanza, e René se ne rende conto quando Anna, la sua vicina di casa di cui è da sempre segretamente innamorato, e che ha perso il figlio fucilato dalla Wehrmacht, decide di prendere la via del bosco per unirsi ai partigiani. La vita di Settebello, che in mezzo secolo è stata sempre uguale, monotona, sottotono, in quell’inverno del ’44 si trasforma in un’avventura, un’avventura di guerra, che lo vedrà prigioniero nel seminario, poi ferito e quasi morto nei boschi innevati con i ribelli della Resistenza, e poi infine salvo, anche se zoppo, a casa, dopo la Liberazione, quando tutti vogliono ricominciare, dimenticare, nessuno vuole farsi domande, ma la disperazione degli orrori vissuti traspare ancora dagli occhi di tutti.
Naspini usa Le Case e i suoi abitanti per rievocare il fantasma di fatto reale: Grosseto fu l’unica diocesi in Europa ad aver affittato un suo immobile per farne un campo di internamento per gli ebrei; per la precisione venne affittata la villa del seminario di Roccaderighi, nel 1943. Le motivazioni sono rimaste oscure, molti degli internati furono deportati ad Auschwitz.
Come tipico dei romanzi di Naspini, ci sono i fantasmi, c’è la verità che si disvela, c’è il personaggio con la menomazione fisica, che io aspetto sempre di conoscere con ansia, perché è sovente il tramite tra due mondi, o ha qualcosa di mitico, o è un “fantasma”. L’elemento nuovo in questo libro è la tenerezza, la compassione, l’emotività, che pure sono presenti sempre nei lavori dello scrittore toscano, ma come sotterranei; qui sgorgano puri come da una ferita aperta. In un paio di punti ho pianto di un pianto bello , e non mi era mai successo con i romanzi di Naspini. Io definisco “Villa del Seminario” un romanzo d’Amore.
Recensione di Azzurra Carletti
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