VOLVER Ritorno per il commissario Ricciardi, di Maurizio De Giovanni (Einaudi – novembre 2024)
È tornato. Maurizio de Giovanni è tornato. Con lui, è tornato Ricciardi.
“Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi” è il quindicesimo romanzo della serie nonché il terzo della trilogia che percorre il periodo della vita del commissario tra il 1939 e il 1940. Il primo è stato Caminito (2022), il secondo Soledad (2023), il terzo, per l’appunto, Volver, che chiude il ciclo (2024).
Parafrasando Todd Philips, l’ultimo tango di Ricciardi è una “follia a due” tra il commissario e il suo passato, tra Luigi Alfredo e i suoi antichi fantasmi.
Il mio non è un giudizio critico. Non vuole esserlo, non può esserlo. Solo parole trascinate dalla passione di una lettura intensa durata un giorno intero. E quella di de Giovanni non è una semplice narrazione. Le emozioni si impongono, pretendono il loro spazio e se lo prendono.
Fortino. Estate del 1940. È qui che si trasferisce Ricciardi, “quello strano uomo disperato dagli occhi verdi”, per sottrarre la figlia e i suoceri alle leggi razziali ed è proprio a Fortino che la nebbia delle emozioni si fa ancora più densa, più fitta con tutte le sue voci fatte di dolore, angoscia, disperazione, morte e desiderio di libertà, di ritorno alla vita.
Feroce e straziante, Volver è un romanzo nel quale de Giovanni intreccia elementi storici e polizieschi (mi piace chiamarli polizieschi usando un termine tanto caro ad Andrea Camilleri), con la presenza insolita di due carabinieri di paese, restituendoci accanto alla suspense tipica della crime fiction, momenti di riflessione sui temi della guerra, delle separazioni, della giustizia, o meglio ancora della ingiustizia, della morte, dell’amore.
Il ritorno “verso la vita che sarebbe cambiata”.
È il libro del viaggio finale, quello del “ritorno dopo essere stati altrove”. Come dice lui. Dove tutti tornano: Ricciardi, Marta, Giulio Colombo e sua moglie Maria, Nelide, il Brigadiere Maione, Bambinella e Bruno Modo. E Livia.
Ma per tutti è un ritorno non solo fisico bensì soprattutto emotivo. Per Ricciardi, poi, è la tempesta perfetta. E ognuno torna con “nuove speranze” o forse “nuove disperazioni”. Le loro storie personali s’intrecciano con la storia dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania nazista. Con Volver finisce il ciclo.
Un noir in cui l’inquietudine di Ricciardi viene, ancora una volta, dallo spazio sospeso tra la vita e la morte, dalla sua capacità, che è al tempo stesso la sua condanna, di ascoltare le voci degli “altri fantasmi”, l’ultimo pensiero dei morti come estrema richiesta di giustizia, e di sentirne gli odori. È questa inquietudine che ci accompagna, che attraversa la storia. Un’inquietudine che questa volta ha una forza diversa. Ricciardi incontra il suo passato partendo dal ricordo malinconico per quell’amore bello, dannato e tragico, per quell’amore incompiuto, per quell’amore che doveva essere e che non è stato: Enrica.
Ma Volver è soprattutto il romanzo in cui Ricciardi strappa, finalmente, il velo a quei fantasmi, ai suoi fantasmi più “intimi”, quelli dell’infanzia, così dannatamente ossessivi, che non lo fanno “campare”. Fino quasi a guarire. Come ogni volta in cui un evento, imprevisto, di fronte al quale ci si chiede il perché, “perché proprio a me?”, mette in realtà, ma lo si capisce solo dopo, il cuore a riposo e al riparo da ogni dolore. Ricciardi lascia il suo eterno purgatorio quello che lo pone a metà tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Per raggiungere il paradiso. E per fare questo è costretto a tornare sul luogo del delitto di quando era bambino. E lo fa in solitudine, senza la sua Enrica.
De Giovanni, dunque, non sfida il lettore. Come nei più classici noir. Indulgente, fedele e spietato. Non gli chiede di scoprire chi è l’assassino e perché ha ucciso. Questa volta è un delitto del passato a sconvolgere la vita del commissario, un delitto che torna, e torna prepotentemente. La storia criminale ha al centro un’indagine familiare e personale. In una crime fiction in cui il crimine più grande è la guerra, il dolore insopportabile che reca con sé, la lontananza, l’assenza di un rifugio, come può esserlo a volte l’amore. A volte, l’amore. La guerra come nuovo personaggio. Negativo. Che tocca tutti e tutto contamina.
De Giovanni racconta, sì, il territorio: ma questa volta non è soltanto un luogo. I luoghi sono due. Perché se “il fatto” non è più il protagonista, non lo è neppure Napoli, sorpresa e sconvolta da una guerra che pensava lontana e che mai l’avrebbe raggiunta.
Una Napoli insolita. “La città grande”, come la chiama Livia, dove si svolge, questa volta solo una parte della storia. La guerra è stata appena dichiarata, ma Napoli è già così diversa, così cambiata, piena di ferite e che si prepara a vivere uno dei momenti più dolorosi della sua storia. Napoli viene raccontata attraverso le voci di Maione, di Bambinella, dell’irrequieto dott. Modo.
Delicato, attento, come un affresco di colori e di odori, di passato e presente, il suo racconto del Cilento. La terra natia di Ricciardi. Il posto dove tutto è nato e dove tutto viene pacificato.
Il posto in cui Marta e il suo speciale rapporto con Zi’ Filumena diventano protagonisti. E a lei sembra lasciare il passo Luigi Alfredo, sembra cederle il testimone, con un bacio sulla fronte, come si faceva anni fa quando un padre non potendo mostrare apertamente i suoi sentimenti per i figli, perché l’amore era visto come un segno di debolezza, baciava il proprio piccolo mentre dormiva e gli diceva: “te vaso a dint’ ‘o suonn”.
Ancora una volta, dunque, un romanzo profondamente psicologico, con una dimensione storico politica che aleggia su tutta la narrazione senza mai prendere il sopravvento, e con una chiara finalità etica, ma in cui a spiazzare è proprio la trama. Il delitto che non ti aspetti.
E poi c’è la pioggia. Sullo sfondo, la pioggia. No. La pioggia non fa da sfondo. E come una pioggia sacra accompagna ogni cosa. Piove. Piove così tanto anche qui. Ma è una pioggia diversa. Che frantuma l’anima. Che fa a pezzi la vita. Quei pezzi di vita che se ne vanno, ognuno per la sua parte. Che si separano per sempre. Una pioggia nostalgica dalla quale, questa volta, non c’è riparo.
Ma proprio come “quando la pioggia è sconfitta dal vento”, anche qui, le luci si alternano con le ombre. È dunque sempre vivo il conflitto tra ciò che è razionale e ciò che la ragione non può spiegare. Ma adesso Ricciardi ha una possibilità: liberare il passato, fare in modo che abbandoni quel luogo in cui è stato lungamente intrappolato. Rendere giustizia a quel corpo e permettergli per una volta ancora di parlargli. Solo una volta.
Vorrei scrivere, e lo faccio, anche se è stato già detto: la scrittura di Maurizio de Giovanni è intelligente, incisiva, coinvolgente, ricca di dettagli come in tutti i noir che si rispettino, ironica (o Bambinella, mia Bambinella) e struggente (fino a farti mancare il respiro).
E con Volver “torna” la sua “cadenza” napoletana, quell’inflessione che fa della sua scrittura qualcosa di musicale, che si può anche ascoltare, e non solo leggere. E la musica appartiene a tutti.
E se Salvatore Di Giacomo è stato definito “il poeta dell’amore che si presta meravigliosamente al giallo” (Teatro TRAM), così possiamo dire di de Giovanni come lo scrittore di noir che riesce a passare dalla prosa alla poesia, cedendole meravigliosamente il passo, cantando l’amore, con la stessa delicatezza di un poeta.
La colonna sonora l’affido a Luca Carboni: “Di persone silenziose ce ne sono eccome, sono timide presenze nascoste tra la gente. Ma il silenzio fa rumore e gli occhi hanno un amplificatore. Quegli occhi ormai da sempre abituati ad ascoltare. Persone che non san parlare che mettono in ordine i pensieri, persone piene di paura che qualcuno possa sapere i loro piccoli e contraddittori pensieri”.
È davvero un addio, questo, commissario?
Volver non è una pagina della vita di Ricciardi. Ma una vita intera. Non è un solo romanzo. Una storia sola. Ma tutte le storie messe insieme. E io le ho viste. Scorrere a una a una. Come in un film.
E Volver è tutto questo: “non c’è ritorno senza una partenza, senza una separazione”.
E alla fine torna, tutto torna. E allora le prendo in prestito le parole del giovane Holden. “Mi fanno impazzire quei libri che quando hai finito di leggerli vorresti che l’autore fosse il tuo migliore amico, per telefonargli ogni volta che ti va”.
Adesso posso dirlo: tra le mie letture più belle, io scrivo di te, scrivo il tuo nome commissario Ricciardi. E il resto? Si sa. Il resto è silenzio.
Recensione di Giuseppina Guida
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