YOGA, di Emmanuel Carrère (Adelphi 2021)
Pubblicato nell’anno della prima ondata della pandemia, “Yoga” non è un libro sul confinamento o gli effetti devastanti del Coronavirus. È un libro di cui si è già parlato molto, in Francia, ma anche in Italia, da quando Adelphi ci ha proposto l’intensa traduzione fatta a quattro mani da professioniste della traduzione. È più forte di me, quando un libro viene tradotto, il mio pensiero va sempre a chi si fa autore annientando la propria personalità per rimanere fedele al testo originale. Per un periodo lunghissimo – dove la lunghezza non si misura in tempo orizzontale, sequenziale, cioè giorni, mesi, anni, ma in tempo verticale, cioè quando la verticalità diventa misuratore del tempo – le nostre traduttrici si sono consacrate esclusivamente alla traduzione, in full immersion. Questa totale dedizione all’opera è un gesto di incredibile generosità e consente un rapporto unico con l’opera e l’autore.
L’immagine che rende bene questa particolare simbiosi la trovo nel libro di Carrère: siamo verso la fine della narrazione, sull’isola greca di Leros. In sella al proprio scooter, per la prima volta, l’autore si trova dietro mentre alla guida c’è il giovane migrante Atiq, che in posizione dominante si apre, fa domande, s’interessa a lui. Ecco una perfetta metafora della traduzione: lo scooter è la materia (da tradurre), il traduttore in questo caso è il giovane guidatore e l’autore, il passeggero dietro. Ma è anche una metafora della fiducia dell’autore nei confronti dei giovani e del futuro, autore lucido e lungimirante, che non esita a lasciar la guida a un giovane migrante. In un mondo minacciato da guerre e sentimenti d’odio che non si placano mai, dall’inequivocabile cambiamento del clima, dai flussi migratori in aumento, il movimento, lo spostamento e la traduzione (bisogna pur capire le lingue parlate nei paesi di approdo), diventano paladini di nuove politiche di inclusione, che segnano diversamente le frontiere, muri ridicoli e obsoleti, portatori di negatività e impulsi malati.
Emmanuel Carrère in questi giorni sta seguendo il processo del secolo: la strage avvenuta il 13 novembre 2015 nel teatro parigino del Bataclan. Quello che si evince dalle sue riflessioni è il tentativo di superare l’odio, almeno con la comprensione dei fatti storici e religiosi, guardando al dolore umano generato, che a sua volta è intrappolato in un una spirale tortuosa e millenaria dispensatrice di stragi, incomprensioni e soluzioni rapide di morte. Questo approccio ai grandi dibattiti odierni dimostra una delle qualità che più amo in questo scrittore: la gentilezza d’animo. Un senso di benevolenza e di tenerezza nei confronti degli altri, di tutti gli altri, buoni e cattivi, innocenti e colpevoli, vittime e assassini. Con questo, non voglio dire che l’omicidio non debba essere punito, dico solo che Carrère indica un approccio che si spoglia dell’odio aggiunto e inutile, che invece si basa su qualcosa di costruttivo, di solido, capace di individuare i semi generatori di pace. Ritornando al nostro libro, “Yoga”, la stessa attitudine l’autore la sfodera nei confronti di se stesso nel vortice che lo porta da un apparente stadio di serenità raggiunta alla perdizione più totale che sfocia nel caos mentale. È un’altra spirale che qui si racconta: una spirale che partendo dallo yoga giunge alla malattia psichica, dalla ricerca della serenità, trova l’inquietudine, l’incertezza, il buio, la perdizione.
Da uno stadio di conoscenze acquisite si ritorna in basso, nel baratro, laddove la conoscenza si frantuma e non si sa più niente. E tutto questo capovolgimento di vita, la sua, l’autore lo affronta senza mai trasmettere ansia al lettore, senza mai infondere angoscia e dipingere scenari pessimisti e di terre desolate. Cosa fa Carrère quando s’imbatte in Moloc? Semplicemente si sposta. Si muove. Finisce su un’isola. Non sprofonda in paludi di autocompiacimento malsano, accetta la sua malattia, prende i farmaci che gli vengono propinati e senza rimpianti per i paradisi perduti, continua il suo cammin di vita, con gli occhi puntati sul nuovo percorso, s’immerge nel presente e vive la vita che si svolge adesso. Hic et nunc. Perché uno spiraglio di luce, finché siamo in vita, c’è sempre. E Carrère ribalta il senso delle cose, non si ritrova ma non si perde d’animo, e nonostante tutto riesce a infondere in chi legge positività e tutto sommato ottimismo.
Ho comprato questo libro perché anch’io pratico lo yoga, sono coetanea di Emmanuel Carrère e mi affido alla guida di una pratica orientale con tutte le perplessità di un occidentale mediamente acculturato. Come Carrère lo pratico da più di trent’anni con alti e bassi, ma mantenendo una pratica costante nel tempo. Tutta la narrazione tenta una definizione dello yoga: sono innumerevoli e nessuna esclude l’altra, anzi si completano e si autodefiniscono una attraverso l’altra. Come dice Emmanuel Carrère in un’intervista, libri sullo yoga, sullo sviluppo personale ce ne sono tanti, ma spesso sono un po’ superficiali e ingannevoli: non è così semplice raggiungere la serenità. La verità di chi intraprende questo cammino è il più delle volte diversa. La stessa parola yoga, etimologicamente significa giogo, ed è come se volesse tenere sotto controllo due cavalli che corrono infuriati in direzione opposta. Lo yoga che contiene gli opposti, cerca di conciliare il mentale e il fisico, l’immanente e il trascendente, l’umano e il divino. Entrambe le nostre tendenze contradditorie coesistono; aspirare alla perfezione e sprofondare nella disperazione procedono su due binari paralleli finché il giogo non si rompe.
Ecco, ricordiamoci chi siamo: come dice Lenin “bisogna lavorare con il materiale che abbiamo” – siamo essere umani, con difetti e amori sbagliati, ci piace bere, gozzovigliare e non solo astenerci, mangiare e vivere sano. E così che le definizioni di meditazione si susseguono nel libro in un esilarante e conciliante visione a secondo del momento e dello stato d’animo dell’autore. Si ride, si piange, ma soprattutto si dice: è vero! Questo è quello che penso anch’io dello yoga! È anche la mia esperienza! Carrère le enumera le definizioni, in dirittura d’arrivo le raccoglie persino tutte insieme. Ecco qualche esempio: la meditazione è tutto quello che succede dentro di sé, durante il tempo che si sta seduti, immobili e silenziosi. La meditazione è noia.
Oppure la vera meditazione si capisce da ubriaco, è vedere le cose per quel che sono, è ginnastica, è scavare la contrarietà. Alla undicesima definizione, l’autore si accorge che gli altri esistono. Secondo William Hurt, la meditazione ci rende migliori, lui, nello specifico, con lo yoga, è più bravo nel suo mestiere di attore. Poi ci sono le definizioni ironiche: «sono un meditante di montagne per mucche», ci dice Carrère, non le cime, le vette dei grandi alpinisti, ma la montagna di mezzo, con le sue grandi praterie brucate da questi grossi ruminanti. Ma tutti possono fare yoga? O solo chi cerca la luce? E chi è schizofrenico? Non risponde Emmanuel Carrère, lascia però intendere dalle riflessioni precedenti, che siamo quello che siamo e ognuno può fare tutto per quello che è. Autofiction, verità e finzione: tutto si mescola in questo libro che non è solo un libro sullo yoga ma un libro sulla vita e sulla realtà. «Scrivo perché è il mio modo di conoscere la realtà», confessa l’autore / narratore. Cercando la verità, che spesso facciamo l’opposto: raccontiamo storie – bugie – a noi stessi. La poesia non giudica e si avvicina alla meditazione mentre la narrazione no: la dodicesima definizione della meditazione contempla questa possibilità.
La lettura della poesia, per lui che non la scrive diventa forse un’altra forma di meditazione. Attraverso i versi di Louise Labé o Catherine Pozzi la sua anima raggiunge un po’ di quelle vette auspicate dai maestri di yoga. Oppure sono le note evocate da pianisti come Martha Argerich a introdurre nuovi stili nella pratica della meditazione. Con queste parole di Glenn Gould, citate in “Yoga”, mi piace concludere questa mia ‘meditazione’: «Lo scopo dell’arte non è il rilascio di un’espulsione momentanea di adrenalina, ma è piuttosto la costruzione graduale e permanente di uno stato di meraviglia e serenità.» Un libro potente e modesto allo stesso tempo: siamo quel che siamo, e la pratica dello yoga non ci rende per forza migliori. Aderire alla realtà e arrenderci ai nostri limiti: se questo lo capiamo attraverso la nostra esperienza – di vita o di yoga – abbiamo raggiunto un grande obiettivo. Attenzione, però! Carrère ci mette in guardia dai falsi traguardi raggiunti; solo la morte è un obiettivo raggiunto; Carrère invita a non sostare negli obiettivi da raggiungere; ci invita a muoverci verso di loro e a stare nel movimento. In altre parole a vivere. Con o senza lo yoga.
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
YOGA Emmanuel Carrère
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