ZERO GRAVITY, di Woody Allen
È incredibile. Anche se può essere definito “leggero”, è un libro che andrebbe letto due volte. Solo così il caleidoscopio di battute che ne costituisce l’asse portante ha la possibilità di essere apprezzato pienamente. Dei diciannove racconti che troviamo in questa recente raccolta del grande autore, attore e regista newyorkese, ormai ottantasettenne, otto sono già stati pubblicati sul “New Yorker” tra il 2008 e il 2013, ma comunque non erano ancora stati tradotti in Italia. Quindi per noi sono tutte storie inedite.
A parte l’ultimo, i testi risultano molto brevi, e questo accentua il carattere vertiginoso delle narrazioni. Si passa da una situazione paradossale a un’altra nel giro di poche pagine, al punto che, come dicevo, a una prima lettura è difficile che personaggi e fatti, per lo più bislacchi, nevrotici e improbabili, restino impressi. Eppure si ride e, se si rilegge, si ride anche di più. Peccato che l’elemento comicamente etopoietico, cioè indicatore del carattere dei personaggi, presente nella maggior parte dei nomi propri, si perda nella traduzione, come riconosce onestamente il traduttore alla fine del volume. Ma era impossibile procedere diversamente, a meno di non appesantire il testo con note esplicative o, peggio ancora, con goffe rese in italiano dei nomi originali, come accade in alcune antiche traduzioni di Plauto.
In questo esilarante caos narrativo, l’ultimo racconto, “Crescere a Manhattan”, si distingue per la maggiore lunghezza e per il tono meno frenetico. Si tratta quasi della sceneggiatura di un classico film di Allen, tipo proprio “Manhattan”, per intenderci. E basta ascoltare in sottofondo, “Waltz for Debby”, di Bill Evans, o un altro dei tanti meravigliosi brani musicali citati nel testo, perché l’immersione nella cornice dello skyline della metropoli americana sia perfetta.
Mi sa che dovrò proprio rileggerlo, questo libro…
Recensione di Pasquale Vergara
ZERO GRAVITY Woody Allen
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